Cara nonna,

negli ultimi tempi il mondo deve esserti parso assai bislacco, e forse anche quelli intorno a te. Non è educato pretendere da una centenaria di affidarsi alla memoria per ricordarsi la metà inferiore del viso di figli e nipoti. E che storia è mai questa che non ti abbracciamo quando veniamo a trovarti? Non posso fare a meno di pensare al tuo sguardo, quando ti ho salutata, da lontano, a febbraio. “Quando mi vaccino ti abbraccio”, ti ho detto, “la prossima volta”.

Mi dispiace aver dato per scontato che una prossima volta ci sarebbe stata. Mi scuserai, ma ci hai fregati tutti: pensavamo fossi eterna, dopo averti visto saltare con tanta grazia ogni ostacolo che ti si è parato davanti. Rompersi un ginocchio? Che vuoi che sia. Cadere dal letto? Capita. Usare Skype per parlare con una nipote in Erasmus e un altro in viaggio in altri continenti? E che ci vuole. 101 anni e vergognarsi ancora se qualcuno viene a trovarti e ti trova spettinata.

Ci hai abituati male, con questa storia che volevi battere i secoli in resistenza. E ci abbiamo sperato, di portarti ancora un po’ più in là, almeno fino alla fine di questo tunnel chiamato pandemia, almeno fino a Matilde, armati di tazzine, quelle bianche a righine, piene di caffè della Moka.

Adesso mi rendo conto che non ripetevi neanche più tanto spesso il tuo mantra: “Ma che ci sto a fare qui!”. Questo mondo bislacco, alla fine, doveva essere uno spettacolo affascinante.

Ricordo di averti sempre sentito dire quella frase, che sollevava invariabilmente cori di proteste intorno, ma so che c’è stato un prima e un dopo di essa: la vita non ti ha risparmiato le sofferenze, eppure non sono mai state una presenza ingombrante; hai attraversato la vita leggera, quasi invisibile a volte, toccando le vite di tutti senza invaderne alcuna. Sempre presente, ma senza far rumore.

Non ricordo nessuna occasione in cui tu abbia espresso giudizi affrettati o cattivi su qualcuno.

Non ricordo di averti mai sentita arrabbiata o sopra le righe.

Non ti ho nemmeno mai sentita alzare il tono di voce.

Ricordo invece il bicchiere di acqua zuccherata poggiato sul comodino ogni volta che rimanevamo da te a dormire.

Ricordo i furti di tortellini e tagliatelle crude rimasti sempre impuniti.

Ricordo i cuscini del divano buttati all’aria per giocare “agli orsi polari”.

Ricordo il posto apparecchiato in tavola all’istante quando mi fermavo da te a pranzo, non annunciata, di ritorno dal liceo.

Ricordo un’interlocutrice partecipe e attenta, probabilmente l’unica, quando parlavo di politica.

Ricordo il giro d’Italia, il tuo tifo silenzioso e sobrio e nessuno che si azzardava a cambiarti canale.

Ricordo le parole “se stai male puoi parlare con me”.

Ricordo il tuo modo di piegare la testa e alzare le spalle quando dicevi qualcosa di sarcastico, come se queste piccole marachelle bastassero a renderti felice.

Ricordo i “mangiaci qualcosa con quel caffè”, e le scatole di biscotti prontamente allungate attraverso il tavolo.

Non eri una nonna esuberante e ridanciana, eri una nonna silenziosa che rispettava il silenzio degli altri, riempiendolo con piccole cose, attenta sempre a non disturbare troppo, a occupare meno spazio possibile.

Cara nonna, mamma, bisnonna, zia, bis-zia,

salutarti è difficile, nessuno di noi vorrebbe farlo.

E allora la faccio semplice: vorrei provare a essere un po’ più come te ogni giorno a venire. Planare sulle meschinità della vita, esserci per gli altri, non negare a nessuno pane e maionese e non giudicare chi inzuppa le patate fritte nell’acqua per raffreddarle. E alla fine andarmene in un soffio, senza dare tempo a nessuno di sentirsi in dovere di dirmi grazie per qualcosa.

Però noi, grazie, te lo diciamo lo stesso.

 

 

Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata

possente e orrenda. Non lo sei.

Coloro che tu pensi di rovesciare non muoiono,

povera morte, e non mi puoi uccidere.

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