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I 4 libri che hanno giustificato la mia esistenza nel 2020

C’è poco da dire che già non sia stato detto, ribattuto e ribadito in ogni forma e sugo a proposito dell’anno domini 2020. Io lo immagino già lanciato verso una radiosa carriera di neologismi afferenti all’ambito del turpiloquio: vaffanduemilaventi, figlio di un duemilaventi! Questo taglio di capelli ti sta da duemilaventi! e così via.

 

Al di là dei tessuti affettivi lacerati, delle preziose abitudini quotidiane perdute, dei lutti e della sofferenza fisica e psicologica di ognuno, credo che la costante per tutti sia stata la medesima: la mancanza di prospettiva. Sia a breve sia a lungo termine. L’incapacità, cioè, di progettare e programmare alcunché, che è poi, a mio avviso, il modo preferito dalla nostra specie per allontanare l’horror vacui. Avere un piano o un obiettivo allontana la dolorosa consapevolezza di non essere altro che animali, rinforza la nostra autoillusione di avere una ragione, un diritto e una giustificazione all’esistenza che non sia il semplice nutrirsi, propagarsi sul pianeta e infine, in un modo o nell’altro, tornare a essere nutrimento organico per il microcosmo a cui apparteniamo.

 

L’abisso su cui ci ha fatto affacciare il 2020, in questo senso, era difficile da affrontare. Si sa: quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro.

Da una parte i divorzi, dall’altra i nuovi nati. Da una parte il boom di abbonamenti Netflix, dall’altra una ritrovata passione per gli sport individuali. Ognuno fugge dall’abisso come può. Perciò, in questo finale di Annus Innominabilis, ci tenevo a spendere due righe per ringraziare i perfetti sconosciuti che mi hanno aiutata a scavalcare i momenti peggiori, almeno per un po’.

 

Ecco allora i libri che hanno giustificato la mia esistenza nel 2020.

 

Valentina Petri – “Portami il diario” (maggio 2020)

Valentina Petri - "Portami il diario"

Parto dal libro che mi ha accompagnata verso la fine di un pesantissimo secondo quadrimestre di DaD, dritto in faccia a un esame di maturità che passerà alla storia per essere stato il più squinternato e ansiogeno dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Valentina Petri insegna lettere in un istituto professionale ed è una di quelle insegnanti di cui avremmo bisogno. Non perché sia particolarmente brava o preparata – questo io non lo so per certo perché non la conosco, non sono una sua studentessa, anche se sono piuttosto sicura che lo sia -, ma perché ha quello spirito all’autoimmolazione che dovrebbe essere requisito base per l’insegnamento. Chiamatela empatia, chiamatela come volete: filtra da ogni parola del suo libro, e per me è stata pura luce in un periodo di oscurità fittissima, un periodo in cui però, nonostante le difficoltà tecniche, tecnologiche e burocratiche con cui io e i miei colleghi ci siamo dovuti scontrare per quattro lunghi mesi, il rapporto con i nostri studenti ne è uscito ancora più forte. Quel rapporto che nel libro della Petri viene celebrato in tutte le sue luci e ombre, sempre con una soave ironia che è la grande cifra stilistica dell’autrice. Leggendolo ho pianto, ho riso, ho annuito riconoscendomi in tante delle scene dipinte da lei. E nonostante la fatica immensa di riadattare, a infrastrutture e tecnologie carenti se non del tutto assenti, un lavoro che non è mai stato pensato (né mai lo sarà) per essere svolto a distanza, senza aiuto alcuno dall’esterno, le pagine di “Portami il diario” sono state una conferma di una grande verità: che questo mestiere non lo cambierei con nessun altro al mondo.

Valentina Petri scrive settimanalmente su Il Fatto Quotidiano e, con costanza, anche sulla sua pagina Facebook, dove racconta con semplicità, ironia e sensibilità quel che succede (davvero) nel mondo della scuola. Mi fa piangere 8 volte su 10, ma va bene così.

 

Frank McCourt – “Teacher Man” (novembre 2020)

Frank McCourt - Teacher Man

Frankie è arrivato diversi mesi dopo la Vale, ma sempre caduto a fagiolo in un nuovo, deprecato periodo di DaD (ufficialmente ancora non concluso). La differenza fra i due autori è abissale, ma queste autobiografie sono unite da una passione che travalica i decenni e gli oceani. McCourt comincia la sua carriera di insegnante nel secondo dopoguerra nelle vocational schools di New York. Per quanto il contesto newyorkese sia ben diverso da quello della remota campagna piemontese, le affinità fra vocational schools e istituti professionali italiani è evidente a chiunque vi abbia insegnato o studiato. Come a dire che i tipi umani, in fin dei conti, sono pochi e ricorsivi. “Teacher Man”, che poi è il modo in cui i primi studenti del professor McCourt si rivolgono a lui, è un libro esilarante. Dipinge in modo così vivido la realtà che descrive che mi sono ritrovata, trascinata da un impulso insopprimibile, a recitarne alcune parti ad alta voce, imitando la cadenza e lo slang del ghetto. Cosa ho amato in particolare di questo libro? L’atteggiamento di McCourt-insegnante, che fa di tutto per frantumare il muro che lo separa dagli studenti, pur sapendo che in qualche modo esisterà sempre; che semina volontariamente zizzania, rinfocola il contrasto e le discussioni, esce dal seminato, insomma, in ogni modo possibile pur di sviluppare cervelli pensanti; che a volte invidia i colleghi che riescono a “salire in cattedra”, a seguire un programma dall’inizio alla fine, a concentrarsi su voti e scadenze, ma poi, invariabilmente, si rende conto di non poterlo fare perché è stato costruito in maniera diversa. Forse anche perché ha avuto esperienze diverse prima di fare l’insegnante. Ma soprattutto perché si è sentito per tutta la vita un underdog, e non può far altro che riconoscersi in chi – e stare dalla parte di chi – è un inferiore come lui.

Io mi sono riconosciuta in ogni pagina e parola di “Teacher Man”, sentendomi giustificata finalmente, attraverso le parole di uno spirito affine, a vivere la mia professione secondo la mia coscienza e non secondo quello che stanchi professori ubriachi di autorità vogliono farmi credere di dover per forza essere.

 

Haruki Murakami – “L’arte di correre” (settembre 2020)

Haruki Murakami - L'arte di correre

Come dicevo all’inizio di questo articolo, ognuno trova il modo migliore per sé per fuggire dall’abisso. Per me il modo sicuramente più efficace è stata la corsa, che mi ha ridato obiettivi a breve termine (vedi: come arrivare in fondo alla giornata) e, collateralmente, mi ha permesso di preservare la mia salute psichica e fisica. È una banalità, lo so, ma quando si pratica uno sport con costanza si è meno inclini, ad esempio, ad avere comportamenti alimentari scorretti; si cerca sempre, anche inconsapevolmente, di tutelare la propria capacità di continuare ad avere un buon rendimento in quella disciplina. A volte però risulta difficile spiegare a chi, invece, passerebbe volentieri 12 ore al giorno sul divano a divorare una serie TV dopo l’altra cosa ti spinga a spendere una o due ore del tuo tempo quasi ogni giorno a sudare. A volte è difficile spiegarlo anche a sé stessi. Lo sa Murakami, che con l’inquietante perfezionismo tipico dei nipponici ammette candidamente di aver dovuto spesso superare una montagna interiore prima di mettersi in strada ogni giorno e correre per 10 o più chilometri. Il senso profondo di “L’arte di correre” forse è comprensibile solo a chi condivide la passione della corsa, ma può essere un buon punto di partenza per spiegare ai vostri amici, fidanzati, familiari perché schizziate via di casa non appena avete un’ora libera o esce un raggio di sole. E perché cazzo vi piaccia tanto sottoporvi alla minaccia costante di rotture del menisco, tendiniti ai polpacci, slogamenti di caviglie, abrasioni di gomiti e polsi sull’asfalto, asfissia, morte. Questo è un libro che mi ha davvero parlato al cuore – questo muscolo potente che negli ultimi sei mesi mi ha fatto l’onore di farmi percorrere, a una velocità sempre crescente, un totale di circa 700 chilometri. Il concetto fondamentale comune alla miriade di frasi che ho sottolineato in questo libro e che spesso mi hanno aiutato ad arrivare alla fine del chilometro successivo in giornate particolarmente storte è questo: correre dà un obiettivo, una prospettiva, un modo per sentirsi in evoluzione anche quando tutto il mondo intorno si è fermato, trovando nel sé stesso del giorno prima l’avversario – l’unico avversario rilevante – da battere.

 

David Quammen – “Spillover” (dicembre 2020)

David Quammen - Spillover

“Spillover” è un libro del 2013 tornato chissà perché alla ribalta nel corso del 2020: sicuramente lo avrete visto nelle vetrine di molte librerie nei mesi passati. Il tema è quello, appunto, dello spillover, il salto che alcuni virus sono in grado di compiere da una specie a un’altra, e in particolare verso gli umani. Dai pipistrelli agli umani. Dalle scimmie agli umani. Dai ratti agli umani. Creando un fottuto casino, come ormai ben sappiamo. Se non parlassimo di scienza e di serie storiche della natura, questo libro potrebbe apparire profetico. Ma dato che parliamo di scienza etc., e non del gioco dei tre bicchieri, “Spillover” è più che altro un libro che aiuta a capire meglio le regole del macrocosmo in cui viviamo e dei microcosmi che noi ciechi, noi stupidi esseri umani ci dedichiamo con tanto impegno a disintegrare. Salvo poi tirarci la proverbiale zappa sui piedi. Con un linguaggio trascinante, diretto, chiaro, Quammen spiega la genesi delle pandemie che hanno afflitto l’umanità dalla seconda metà del secolo scorso in poi: cause, conseguenze, ma anche responsabilità. È il regalo perfetto per la zia negazionista, il cugino no-vax e il collega che pensa che Bill Gates vi controlli il cervello ogni volta che aprite Word. Ma anche il regalo perfetto per voi stessi, se volete capire la realtà nuda e cruda del mondo naturale. Potrà sembrarvi strano trovare un libro del genere nella mia lista, ma “Spillover” mi ha dato proprio quello di cui avevo bisogno in questo finale di 2020 che non esito a definire, senza animosità alcuna, ma piuttosto come una constatazione di fatti, privo di speranze e felicità: un po’ di conoscenza in più, e dunque un po’ di ansia in meno. Ma anche più fiducia nel futuro: non una fiducia astratta e romantica, ma una fiducia basata sui dati. Perché è vero che siamo bravissimi a distruggerci a vicenda, ma siamo bravi anche a curarci. E “Spillover” è, secondo me, un inno al mondo della ricerca medica, quello che combatte per le cure e non per la distruzione. In attesa del vaccino contro il Covid, “Spillover” rappresenta un ottimo vaccino contro l’ignoranza e la paura, che spesso sono due facce della stessa medaglia.

 

Buon 2021 a tutti.

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