Pensate a queste tre situazioni: una brutta prigione umida, Milano durante le insurrezioni popolari del ‘600 e la cucina di vostra nonna quando eravate bambini. Cosa le rende simili? Una necessità di fondo, quella del cibo, e un comune denominatore: il pane. Un pezzo di pane raffermo è infatti ciò che viene concesso, insieme a un bicchiere d’acqua, anche al peggiore dei criminali; per il pane il popolo affamato nei Promessi Sposi di Manzoni prendeva d’assalto i prestinai; e il pane era molto probabilmente l’ingrediente principale delle merende a casa dei vostri nonni, insieme a marmellata, Nutella e maionese. Non c’è cibo più semplice, più universalmente diffuso e più amato di questo: gli stessi gesti millenari delle mani che impastano acqua, farina e lievito accomunano popolazioni separate da oceani ed epoche con numeri diversi a segnare l’ordine delle centinaia. E perlomeno in Italia dalla qualità del pane si può anche giudicare la qualità di un ristorante intero.
Qui faccio un Preambolo, o Intermezzo. Per i primi vent’anni della mia vita ho mangiato solo perché dovevo, solo perché sono un essere umano e gli esseri umani, per svolgere le loro funzioni sociali, hanno prima bisogno di svolgere quelle vitali. Sceglievo i cibi con la stessa diffidenza con cui (tuttora) scelgo le persone di cui circondarmi. Poi qualcuno mi ha insegnato la poesia della cucina, la magia di accostare i sapori come fa il topino di Ratatouille e di ascoltare quelle sinfonie silenziose che scaturiscono dai giusti abbinamenti di cibo. Ho imparato quant’è bello far sentire coccolate le altre persone, cucinando per loro. Quella tenerezza dell’atto più nobile e più pieno di amore fra tutti: nutrire, e quindi permettere alla vita di esserci. La tenerezza delle mani che sminuzzano una cipolla, che spargono delicatamente l’origano sui pomodori, che ruotano energicamente mestoli e macinini; la tenerezza del cuore che rimane sospeso mentre si rigira una frittata o ci si china a spiare, attraverso lo sportello del forno, se il dolce sta lievitando bene. La tenerezza del vapore caldo e profumato che si sprigiona da ciò che si è creato con le proprie mani.
Pian piano il mio palato si è evoluto, ho imparato a gustare sapori che fino a poco tempo prima mi ripugnavano, ho creato tante sovrastrutture, ovvero mi sono appassionata di impiattamenti e virtuosismi da chef – e con questo non voglio dire che sono perfettamente in grado di compierli, solo che mi piace osservarli e copiarli, perché tutto sommato anche questa è una forma d’arte. Però alla fine non c’è niente, proprio niente che batta il sapore e il profumo di un pezzo di pane appena sfornato. Dell’alimento più povero di tutti, dell’Alimento per eccellenza.
Dopo tanto girovagare e assaggiare nelle mense del mondo, è proprio vero, si torna sempre a casa. L’estate scorsa a EXPO ho avuto l’occasione di partecipare a una cena organizzata dalla storica Enoteca Pinchiorri, che per l’occasione aveva portato in tavola un percorso di degustazione tutto incentrato sul pane, l’alimento atavico per eccellenza, simbolo della lotta allo spreco. Annie Féolde, executive chef del ristorante, ha commentato così questa scelta:
Ogni giorno buttiamo via troppo, e non solo rifiuti alimentari […] Il problema è che andiamo tutti troppo alla svelta e la gente non ha nemmeno il tempo di capire come riutilizzare ciò che scarta.
Al di là della bontà di ciò che ho mangiato durante questa cena che, non scherzo e non uso eufemismi, mi ha commossa fino alle lacrime, ne condivido in pieno la premessa ideologica. Il riciclo alimentare è la più sana delle abitudini. Io e il mio compagno ci crediamo fermamente: il sabato facciamo la spesa per la settimana senza comprare cose in eccesso che altrimenti verrebbero buttate; quello che avanza dalla cena lo ricicliamo per il pranzo, costruendoci su nuove ricette che, non di rado, sono più buone di quelle di partenza, ma che in ogni caso non sono prive della loro dignità.
Il riciclo, ve l’assicuro, si può fare proprio con tutto. Sabato scorso Alessandro ha iniziato a produrre una nuova birra, la Queensryche. Com’è normale, dalla brassatura sono avanzate le trebbie, vale a dire ciò che resta dei grani macinati e cotti per la produzione del mosto. Generalmente questo scarto lo diamo in pasto alle galline, quindi non va comunque sprecato. Stavolta però abbiamo pensato, su consiglio di un compagno di “studi” di Alessandro, di usare le trebbie per un pane casalingo. Il primo pane che entrambi abbiamo mai provato a fare e, di conseguenza, anche il primo fatto insieme. Chini su una grossa ciotola di metallo, ad aggiungere lievito e farine di tre tipi diversi, entusiasti come dei piccoli chimici.
E qui torniamo al punto iniziale: il pane e la sua bellezza quasi primordiale.
Mentre il profumo del pane con le trebbie si spandeva per tutta la casa, alle 11 di sera, ci siamo guardati emozionati come se avessimo compiuto chissà quale impresa e quando il nostro panino è finalmente uscito dal forno ognuno di noi ha sentito distintamente il rumore dell’acquolina che dalla bocca dell’altro si faceva faticosamente strada giù per la gola. E poi il momento dell’assaggio; sguardi che ridono e si incrociano fra i vapori caldi e profumati e subito dopo lo scambio di un sussurro complice: “è buonissimo!”.
Penso che niente potrà mai eguagliare l’amore e l’intimità vissuti in questo momento. La ricetta del Nostro Primo Panino rimarrà segreta, ma il risultato lo potete vedere in foto. È o non è bellissima, la nostra creatura? Il pensiero di tornare da lavoro e trovarla in tavola, ma soprattutto di godermi il sorriso complice di chi l’ha cucinata insieme a me è sufficiente a dare alla mia giornata tutto il calore di cui ho bisogno.
Io la chiamo gastronomia affettiva: per Proust aveva le sembianze di una madeleine; per me, prima di tutto il resto, ha la forma e l’odore del pane. E per voi?
Laureata magistrale in Lingua e cultura italiane per stranieri all’università di Bologna, insegno lingue straniere nella scuola secondaria, ma ho lavorato per diversi anni nel settore del web marketing. Sogno una casa in collina e un cuoco giapponese privato. Amo i gatti, soprattutto quelli sfigatelli, e le Guzzi.