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Si stava meglio quando si stava 56k

Ho pensato a lungo a come scrivere questo post per evitare che suonasse come il lamento di una gioventù ormai morente, rassegnata a incrociare le braccia dietro la schiena e affacciarsi sul più vicino cantiere per sbirciare i lavori in corso. Il fatto è che questo discorso, se il vostro battesimo dell’Internet non è avvenuto per mezzo di una connessione 56k, vi suonerà comunque come un rimuginare nostalgico e anacronistico sul mondo che fu. Ma per noi vecchietti dello World Wide Web – e ci riconoscete proprio perché sappiamo a cosa corrisponda la sigla WWW – nostalgia non equivale affatto rimpiangere quel ding dong cacofonico per mezzo del quale il modem ci catapultava in una dimensione oscura; non si stava davvero meglio quando si stava 56k: strappare qualcosa alle grinfie della Rete era una lotta impari, sudata e mostruosa con forze che non eravamo in grado di controllare, come le chiamate della zia di Firenze che all’improvviso mandavano in fumo tutto il nostro lavoro, facendo crollare la connessione. Quanti insulti, di stanza in stanza, fra i due eserciti contrapposti: i fautori della conversazione telefonica da una parte, i pionieri della tastiera dall’altra, due idee inconciliabili di relazione interpersonale destinate allo scontro perenne. E per forza, poi, sviluppavamo insonnia cronica, perché la notte era il momento in cui nessuno ci chiamava a casa, e col favore delle ombre potevamo ingozzarci di focacce e pizze surgelate e succo di pera davanti al computer finché le retine non dichiaravano sciopero. Eppure, come ogni strada in salita, anche questa ci ha lasciato qualcosa: non quadricipiti più forti, ma resilienza, criticismo, inventiva, questo sì, di sicuro.

 

La connessione della discordia

Quell’attesa dell’orario giusto in cui connettersi, gli ultimatum lanciati dalla genitrice, la sfida costante alla linea telefonica che minacciava a ogni istante di scaraventarci di nuovo, dolorosamente, nella realtà, erano un esercizio di pazienza e non solo. Il tempo guadagnato in quella rete, che ci connetteva in maniera spaventosamente semplice al resto del mondo, non era un tempo che si poteva sprecare. In quel tempo si decideva, come oggi, di presentarsi agli altri come personaggi, di calarsi una maschera sugli occhi, ma quelle erano maschere in cui riversavamo ciò che avevamo già dentro di noi e magari non potevamo esprimere fuori; copiare era fuori discussione, l’imitazione era bandita perché era facile da scovare, eravamo una piccola setta di anarchici i cui movimenti erano visibili a chilometri di distanza in quel vasto deserto che era allora Internet. Non avevamo a nostra disposizione enormi banche dati di tutto lo scibile umano a cui accedere in maniera istantanea e con cui coprire le nostre lacune.

 

Nei nostri personaggi riversavamo l’enciclopedia limitata a cui avevamo accesso e che coltivavamo con perizia attraverso il dialogo, affatto fatuo, con i nostri compagni di rete; esploravamo i nostri moti e motivi più oscuri, lavoravamo su quello che amavamo di noi, facendo a pezzi noi stessi prima degli altri, lo gonfiavamo fino a scoprire nuovi limiti a ciò che potevamo conoscere e diventare. Superavamo quei limiti, per poi tornare indietro a difenderli, e poi muoverci ancora avanti a balzelli tanto coraggiosi quanto incerti, scoprendo a ogni salto qualcosa che non sapevamo ancora; ci vergognavamo quando venivamo colti nell’ignoranza e abbassavamo la voce. Non c’erano effetti grafici che potessero sopperire alla mancanza di fantasia, che era il primo e il più importante strumento di sopravvivenza; usavamo la fantasia per recitare la parte che ci eravamo scelti e poi perfezionavamo le nostre parole seguendo l’altrui esempio, modellando la nostra voce su quello che, nel vocabolario degli altri, catturava la nostra attenzione: addestravamo l’inventiva e, insieme a lei, l’istinto al pensiero critico. L’inglese apriva infinite possibilità, ma bisognava sbatterci la testa contro armati di orecchio, dizionario e vagonate di buona volontà.

 

C’era onestà intellettuale, in questo. Perché anche nella costruzione di un personaggio fittizio si usava solo il materiale che si aveva a disposizione, ovvero sé stessi. Non si tentavano passi più lunghi delle proprie gambe, non ci si accaparrava della proprietà degli altri spacciandola per propria o, se lo si faceva, la collettività virtuale ci si sollevava intorno mettendoci alla gogna. Implacabile. E la memoria delle offese durava a lungo, perché la scarsità di altri intrattenimenti aiutava a fissare il ricordo passando ancora e ancora dai sentieri già noti. Un gioco di ruolo veniva affrontato con gli stessi valori che reggevano la vita là fuori, la Rete era un’estensione della realtà, anche un rifugio, va bene, ma mai un luogo dove sentirsi autorizzati a dimenticarsi le regole della civile convivenza o in cui ogni gerarchia, ogni principio cardine della società reale, potesse essere ribaltato a proprio piacimento. Ciò che ti rendeva caotico malvagio nel gioco era ciò che ti rendeva un caotico malvagio nella realtà, e nessun caotico malvagio diventava mai eroe. Nessuno rivendicava il diritto all’ignoranza, o se ne vantava come se fosse in errore chi invece, le cose, che si trattasse di grammatica o fatti del mondo, le sapeva. Uno valeva quanto la somma delle cose che sapeva e da ciò derivava il raggio d’azione del suo diritto di parola. Perciò venivano subissati di insulti in uguale misura quelli che usavano il verbo “sparare” transitivamente per parlare di un persona che aveva ricevuto una pallottola nello stomaco, quelli che rubavano pezzi di codice al sito di qualcun altro e quelli che piantavano nenie autocommiserative sui forum. E se ancora ricordo molte di quelle scene di pubblico ludibrio provenienti dagli albori dell’Internet è perché, probabilmente, hanno contribuito a plasmare la Francesca adolescente nella Francesca adulta che, oggi, difficilmente si tira indietro di fronte all’ignoranza e ai soprusi, anche quelli virtuali, e che crede nel potere delle comunità unite.

 

Amicizie nate su internet nel 2002 e ancora vive e vegete nella vita reale.

Quando, dopo un minuto di gemiti elettronici, la Telecom metteva fine alle sofferenze del modem spalancandomi le porte di Internet, mi sentivo una privilegiata per il fatto di poter fare parte di quella comunità in cui la coscienza collettiva ti proteggeva dalle prevaricazioni e in cui si era liberi di non sapere, ma anche entusiasti di rimediare alle proprie mancanze. Il privilegio apriva la strada alla consapevolezza, e questa al pensiero critico. Ma dov’è oggi questo pensiero critico? Se sono qui a rivendicarlo è perché, ogni volta che mi trovo ad affrontare una qualsiasi discussione online, vengo assalita da una stanchezza immane nel constatare l’acrimonia e l’aggressività gratuite che vi imperversano. Sono talmente stanca che, davvero, vorrei spegnere qualsiasi dispositivo elettronico e dedicarmi al pattugliamento dei più vicini lavori in corso – poi, invece, mi limito a fuggire in luoghi dove il cellulare non prende.

 

Sono stanca di questa miriade di piccoli feudi in lotta fra loro, retti da signorotti interessati solo ad avere la torre di un metro più alta delle altre. Sono stanca della mancanza di curiosità, di sorpresa ostentata da tutti, come se ognuno avesse già tutte le conoscenze che gli servono, e niente più potesse stupirlo, affascinarlo con il candore e l’innocenza di un bambino, spalancargli una porta sull’abisso della sua ignoranza che fa, sì, paura, ma è anche un’opportunità di arricchimento. Sono stanca di chi aggredisce ancor prima di capire l’argomento di cui stai parlando, e che continua ad aggredirti anche quando è evidente che state dicendo la stessa cosa. Stanca di chi, a una domanda ben precisa, risponde parlando di tutt’altro per spostare la conversazione in un terreno che gli è familiare e far vedere a tutti che anche lui ne sa qualcosa. Sono stanca di questo calore fasullo che si instaura fra chi si seppellisce a vicenda di like, ma poi, quando si tratta di coltivare realmente un’amicizia, di supportare l’altro, di dimostrare interesse per la persona che esiste fuori dalle storie di Instagram, si stanca ancor prima di iniziare. Sono stanca anche della facilità con cui si trova tutto e della rapidità con cui le dita hanno imparato a muoversi più veloci del cervello non appena questo fatica un po’ a recuperare un nome dalle torbide acque della memoria, pescando per lui la risposta giusta e rendendo, giorno dopo giorno, i suoi neuroni sempre meno reattivi.

 

Non è mio intento demonizzare Internet tout court, ma proporre una riflessione sulla violenza e la stupidità a cui diamo adito nell’uso che ne facciamo oggi rispetto a un paio di decenni fa. La comodità non dovrebbe far perdere il senso della realtà e della misura, eppure lo fa: ci spinge a dimenticare di grattare sotto la superficie, a non leggere e comprendere davvero a fondo, a dimenticare subito ciò che abbiamo visto o sentito. A tracciare una linea di demarcazione netta fra ciò che è virtuale e ciò che è reale, come se dietro a uno schermo ci potessimo prendere libertà diverse, come se le parole avessero un peso diverso nell’uno e nell’altro mondo. Invece tutto ciò che esce dalle nostre dita, così come dalla nostra bocca, ha conseguenze su chi ci circonda. Ciò che noi siamo qui, dentro a questa bolla digitale, modella ciò che siamo fuori e influenza chi ci osserva.

 

Compiamo spesso l’errore di considerarci individui soli, senza legami con il resto del mondo; siamo convinti che delle nostre azioni dobbiamo rispondere solo noi; e magari, in alcuni momenti, abbiamo pure l’arditezza di pensare che ognuno sia in grado di dirimere dubbi e smascherare falsità con le proprie forze, senza aiuti esterni, dimenticando che non tutti hanno i mezzi necessari per farlo. Ad esempio chi, adesso, ha l’età che avevo io quando viaggiavo su Internet con un modem 56k.  Che tipo di adulti diventeranno gli adolescenti di oggi? Come verranno modellati dall’uso che le persone intorno a loro fanno di internet? Nell’Internet di inizio secolo ho costruito amicizie che durano, nella vita reale, da quasi due decenni; in quell’Internet il confronto con gli altri mi ha spesso trovata impreparata, ma mi ha anche insegnato l’umiltà e l’esercizio del pensiero critico. Se fossi cresciuta sommersa dalle grida di guerra che animano oggi il web sarei diventata la stessa persona? Tremo, pensando a chi potrei essere oggi. O a chi potrebbero diventare i miei nipoti. Credo che abbiamo un’enorme responsabilità nei confronti delle generazioni che ci seguono, nell’uso che facciamo di questo dono stratosferico che è il World Wide Web. Mostrate loro, allora, che la perfezione non esiste, ma ispirateli a migliorarsi ogni giorno, senza mettere i piedi in testa agli altri né usando scorciatoie: pensieri divergenti con cui iniziare a plasmare il loro senso critico. E con cui recuperare il vostro.

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