Israel Singer La famiglia Karnowski recensione
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Israel J. Singer – La famiglia Karnowski

A chi fa bene leggere questo libro

Costruire invece di distruggere, imparare ad adattarsi alle situazioni invece di scontrarvisi contro come una punta di diamante, comprendere anche i punti di vista diversi dal proprio: tutto ciò che questo libro ha da insegnare è che per ricevere il meglio dalle persone bisogna anche essere disposti a dare loro il nostro meglio. Una lezione di umiltà che fa bene a tutti, forse la scelta più coraggiosa che abbiamo la possibilità di compiere ogni singolo giorno delle nostre vite.

Con quale motivazione? Il bilancio finale, il lascito ai posteri, quell’eredità morale che il prolifico Israel Singer, scrittore yiddish emigrato negli Stati Uniti nel 1933, probabilmente non ha mai saputo di aver tramandato: vissuto all’ombra della sorella scrittrice, del fratello Premio Nobel, ma dotato di una straordinaria sensibilità, che gli ha permesso di tratteggiare con stravolgente chiaroveggenza un mondo che ancora non esisteva, ma di cui egli già conosceva tutte le insidie, perché conosceva la natura umana.

La famiglia Karnowski
Il sangue e l’onore: prospettiva di una famiglia parzialmente ebraica

Il succedersi delle generazioni della famiglia Karnowski è segnato dal ciclico ripetersi di eventi violenti – le due guerre mondiali, l’emigrazione oltreoceano – che, sebbene inizialmente aprano lacerazioni profonde nel tessuto familiare e sociale, a lungo andare sono in grado di ricucire antiche ferite e portare a riavvicinamenti inaspettati. Il fil rouge di tutto il romanzo è rappresentato dal razzismo di cui tutti, in un modo o nell’altro, siamo imbevuti: non solo il nazista, ottuso e arrogante per antonomasia, ma anche il dotto ebreo che non vuol concedere il figlio in sposo alla shikse e rifiuta di mischiarsi, anche solo per una semplice conversazione, con un ordinario commerciante della Dragonerstrasse, benché questi sia un suo correligionario e, soprattutto, un uomo di nobili sentimenti.

La differenza, fra i diversi tipi di razzismo, la fa la capacità di radicalizzarlo nella totale negazione del diritto altrui alla vita. Di fronte alla violenza sadica, all’ignoranza ottusa del nazismo, molta rigidità di pensiero di alcuni personaggi verrà infatti ridimensionata, sopendo antichi rancori e spingendo alla riconciliazione e al perdono.

Cos’è il vero razzismo? È una malattia che si propaga sul corpo infetto di un Paese, tra le menti troppo umiliate dalla povertà e dalle privazioni. Quando si ha bisogno di un colpevole cui affibbiare la responsabilità delle proprie sofferenze e si deve correre contro il tempo e contro il prossimo per arraffarsi il più velocemente possibile le risorse necessarie a garantirsi la sopravvivenza, ecco che il razzismo si rinfocola e si espande a macchia d’olio.

La povertà spinge a guardare con rancore a tutto il superfluo che non ci si può più permettere, lo mette crudelmente in evidenza sferrando staffilate al nostro orgoglio, così molti di noi, i più deboli, invece di rassegnarsi all’idea di dover cambiare stile di vita e adattarsi ad esso nella speranza che un giorno le cose cambieranno, se la prendono con l’infame destino che non permette più loro di mangiare carne quattro volte alla settimana e adornare la casa di pizzi e cristalli, e sfogano l’ira e la frustrazione su chi sta immediatamente sotto di loro nella scala gerarchica della miseria.

La lezione di Darwin in fondo è giusta: sopravvive non il più forte, ma chi è in grado di adattarsi meglio alle nuove condizioni di vita. Scappando, se necessario, in un Paese nuovo dove tutte le proprie certezze verranno ribaltate, dove si sarà costretti a costruirsi una nuova identità, molto probabilmente non all’altezza delle proprie aspirazioni e competenze, costruite con tanta fatica. C’è chi da questa ruota verrà travolto, incapace di adeguarsi. Una lezione che imparerà a proprie spese, ma che nel momento cruciale gli riporterà anche il sorriso dorato di chi finalmente ha compreso il proprio errore e, insieme a questo, il valore di ciò che ha sempre rinnegato. È questa comprensione profonda e serena – e il sincero pentimento che ne deriva – a contare davvero ai fini della propria vita, del suo bilancio finale, in sostanza della memoria che lasceremo agli altri.

Forse per questo Singer ha deciso di lasciarci in sospeso sulla sorte del protagonista, nelle ultime righe del romanzo: per farci capire che la meta più importante è stata raggiunta e nient’altro conta davvero. L’amore che permette di abbandonarsi senza remore alle mani di chi ha sfruttato ogni risorsa a sua disposizione per mantenerci sani e felici, la riconoscenza, il sentimento empatico di condividere le stesse radici e il desiderio di dar loro importanza e rispetto – tutto questo si fonde con dolcezza disarmante nella richiesta di perdono di un morente, in un’alba newyorkese che chiude finalmente il cerchio e ne apre un altro, all’insegna (si spera) della fratellanza e della comprensione reciproca, anche se i protagonisti forse saranno altri.

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