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Paolo Cognetti – Sofia si veste sempre di nero

Sono talmente abituata a leggere fin da piccola che non riesco ad andare da nessuna parte senza avere un libro (o due) in borsa. Non si tratta di voler fare gli intellettuali a tutti i costi, ma di istinto di sopravvivenza: il silenzio mi mette nel panico. Ho bisogno di riempirlo con le parole: se non leggo, ascolto musica. Se non ho né musica né libri con me, leggo ogni cartello che mi passa davanti agli occhi (e ogni volta che succede penso a mia nonna che ci esasperava a ogni viaggio perché leggeva, anzi, proclamava ad alta voce, come se fosse la cosa più esotica e interessante del mondo, anche il nome delle farmacie).

Insomma, leggo come per riflesso, per questo bisogno intrinseco di riempire il vuoto e dato che di bei libri non è pieno il mondo, ma di libri mediocri invece sì, leggo spesso cose che richiedono poco impegno cerebrale e ancor meno coinvolgimento emotivo. Più pagine macini nella vita e più ti rendi conto ti quante poche siano le cose in grado di lasciarti un segno nel cervello, e questo vale per i libri come per qualsiasi oggetto o persona. Chiuso il libro, riposto il libro nella libreria, te lo dimentichi lì per sempre e probabilmente se il giorno stesso ti chiedessero di fare un riassunto di quel libro non sapresti che dire. Te lo sei già dimenticato.

Attesa del treno ed epifanie

Ora succede che in questo piattume mentale quotidiano un giorno ti capiti fra le mani qualcosa di diverso. Che ti colpisce nei denti come un badile. Mi capita questo mediamente una volta all’anno, in genere sempre in questo periodo. Sarà per il corpo infiacchito dalle vacanze appena terminate o ancora in corso, per i neuroni immersi in un brodo primordiale, per i livelli di ansia sotto la soglia, il che tutto sommato mi rende più pronta a cogliere stimoli, più magnanima a concedere il mio favore a scrittori sconosciuti ed emergenti senza ergere di fronte a loro il fantasma del capolavoro russo passato. A un certo punto arriva un libro che risveglia impetuosamente il mio amore per la lettura, scardina noia e abitudine e mi fa vivere nell’impazienza le ore che mi separano da quando potrò sedermi di nuovo sul treno e riprendere i personaggi dove li ho lasciati.

Arriviamo a Paolo Cognetti…

Mi ritengo una grande lettrice, ma non guardo giornali né leggo riviste e il mio modo di scegliere libri segue il flusso di coscienza improvviso di quando entro in libreria e passo in rassegna gli scaffali finché non trovo un titolo che cattura la mia attenzione. Dunque per me il signor Paolo Cognetti era un perfetto sconosciuto finché il suo nome non ha fatto capolino da dietro una carta regalo strappata con garbo. Sono certa che sia stato il titolo a convincere mia mamma a comprarmi questo libro. Come quando mi ha regalato “Si chiama Francesca questo romanzo” di Paolo Nori (questi Paolo, che rivelazione). Un titolo che sembrava fatto apposta per sua figlia. Beh, colpita e affondata.

Ma insomma, di che parla questo libro?

Sofia si veste sempre di nero parla di una banale famiglia infelice. Chiunque sa che tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ma che ogni famiglia infelice è infelice a suo modo. Ce l’ha detto Tolstoj e noi ci fidiamo ciecamente (o ci crediamo fervidamente, nel caso in cui ci siamo avventurati oltre la metà di Anna Karenina). Ma questo non basta certo a rendere speciale un libro che parla di normalissime, per quanto tristi vicende familiari. E allora vi dirò cos’ha reso speciale per me questo libro.

1. Paolo Cognetti conosce le donne. Non so se le abbia segretamente spiate da dietro gli alberi in mezzo a cui vive o se sia semplicemente dotato di una sensibilità unica, ma è… strano. Anormale, direi. Per quanto poeticamente un uomo possa descrivere una donna, lo zampino maschile si riconosce sempre, così come la voce e il pensiero della donna-scrittrice si sentono chiaramente pulsare dietro alla voce e al pensiero dei suoi protagonisti maschili. Con Cognetti è diverso. Per me era facile immedesimarmi in Sofia, intere pagine sembrano ricalcare le evoluzioni e involuzioni della mia mente dall’infanzia all’età adulta. Eppure anche con Marta è successo lo stesso, e pure con Rossana ho avvertito la medesima scintilla. Alla fine mi sono resa conto che in tutti e tre questi personaggi c’è un pezzo di me e di ogni donna; un trittico del femminino, dei suoi archetipi, delle dualità e delle contraddizioni che ha scritte nella sua stessa biologia. Impossibile non sentire sé stesse in queste voci di donna.

2. Paolo Cognetti non scrive. Lui fa emergere le parole dalle cose, dalle persone, dagli eventi. È come se la vita stessa si raccontasse mentre è in corso. La solenne voce onnisciente dell’autore non si nasconde dietro le foglie degli alberi che poeticamente danzano cadendo al suolo, nelle loro piroette artefatte dal retrogusto fittizio, costruito ad hoc. Non c’è niente di costruito, qui; ci sono soltanto stati d’animo e moti d’animo e le azioni che ne conseguono. Ci sono le microespressioni sui volti quando cercano di nascondere la delusione, la tristezza, la frustrazione: li scovi fra le righe con la stessa naturalezza con cui te ne accorgi quando parli con qualcuno, qua, nella vita reale, e gli occhi ti si illuminano per la soddisfazione malata di aver scoperto un segreto inespresso.

3. Paolo Cognetti ama la città e ama anche il suo esatto opposto. E li ama esattamente per lo stesso motivo: la possibilità che danno di stare soli. Soli con i propri sconvolgimenti -immersi e mascherati nella folla, smascherati e immersi nella natura. Padroni della propria storia interiore, che segue ritmi completamente diversi da quelli della vita esteriore e, nel suo viaggiare, perde spesso le coordinate dell’esistenza tangibile. È un raccontare profondo, una lunga apnea della coscienza, in cui seguiamo l’evolversi del personaggio come se il suo destino fosse incatenato al nostro. Osservandolo dal dentro e non dal fuori. Come se noi fossimo quel personaggio. Finché non chiudiamo il libro rimanendo con gli occhi sbarrati a passare in rassegna tutte le definizioni che nella vita abbiamo dato di noi o gli altri hanno dato di noi, chiedendoci chi in fondo siamo e bramando, alla fin fine, una metropoli o un bosco in cui perdere le tracce di noi stessi.

Esercizi per casa

Tre motivi, direte voi, e che sarà mai? Beh, provate a fare questo esercizio con il libro che avete appena finito di leggere. Se trovate almeno tre motivi per cui vi ha cambiato la giornata, o vi ha aperto una nuova prospettiva, allora dovete coltivare il colpo di fulmine con l’amore quotidiano. Andare in libreria e comprarvi un altro libro di quell’autore, come ho fatto io con Cognetti.

Altrimenti potete restituire quel libro ai boschi da cui viene. Male che vada offrirà materiale per i nidi degli uccelli e potrà dire di avere avuto un senso nella sua breve vita di cellulosa.

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